Il nostro primo approccio con l’India è un “face to face” con il disordine di Delhi, la capitale. Il caos di questa metropoli povera, le cui bellezze disseminate tra quartieri trafficati sono oasi isolate e senza identità, ci lascia sensazioni da cartolina.
Probeet, il nostro autista, ci scarrozza per tutta la giornata tra tombe famose e moschee, in un traffico disparato che fa impallidire quello napoletano (tra l’altro qui la guida è a sinistra essendo l’India una colonia inglese!). Il detto indiano “se sei in grado di guidare a Delhi, allora puoi guidare in qualsiasi parte del mondo” è decisamente adatto alla situazione. Bisogna esserci dentro per capire! In queste strade le macchine si sfiorano in continuazione e la loro lingua è il clacson. Suonarlo non solo non è proibito in qualsiasi ora del giorno e della notte, ma è consigliato! Il retro di ogni camion te lo chiede: “Horn Please”, per cortesia suona, così ti vedo. Ne esce un continuo suono che contribuisce al complessivo caotico quadro d’insieme, dove macchine, moto, auto e camion si mischiano ad intere flotte di taxi gialli e verdi stracolmi di gente, biciclette caricate tanto da chiedersi per quanti metri reggeranno prima che cada tutto, mucche e qualsiasi altro tipo di veicolo su ruote.
Il nostro autista, in uno dei suoi momenti di saggezza, ci ha detto che agli indiani bastano quattro cose:
- Un buon volante
- Un buon clacson
- Dei buoni freni
- Ed infine…. “GOOD LUCK”
La buona fortuna è garantita da un santino di Ganesh, il Dio con la testa di elefante, che, secondo i racconti di Probeet, per gli indiani è obbligatorio avere sul cruscotto.
Non sappiamo se credere a tutte le cose strane che ci racconta Probeet, ma di sicuro, a differenza di noi italiani, gli Hindù ai loro dei sono molto affezionati. Ce ne sono 33 milioni e quindi è difficile ricordarli tutti; così normalmente ognuno ne sceglie n po’, a piacimento, e li prega per aver fortuna, soldi e amore.
Probeet, il nostro autista, ci scarrozza per tutta la giornata tra tombe famose e moschee, in un traffico disparato che fa impallidire quello napoletano (tra l’altro qui la guida è a sinistra essendo l’India una colonia inglese!). Il detto indiano “se sei in grado di guidare a Delhi, allora puoi guidare in qualsiasi parte del mondo” è decisamente adatto alla situazione. Bisogna esserci dentro per capire! In queste strade le macchine si sfiorano in continuazione e la loro lingua è il clacson. Suonarlo non solo non è proibito in qualsiasi ora del giorno e della notte, ma è consigliato! Il retro di ogni camion te lo chiede: “Horn Please”, per cortesia suona, così ti vedo. Ne esce un continuo suono che contribuisce al complessivo caotico quadro d’insieme, dove macchine, moto, auto e camion si mischiano ad intere flotte di taxi gialli e verdi stracolmi di gente, biciclette caricate tanto da chiedersi per quanti metri reggeranno prima che cada tutto, mucche e qualsiasi altro tipo di veicolo su ruote.
Il nostro autista, in uno dei suoi momenti di saggezza, ci ha detto che agli indiani bastano quattro cose:
- Un buon volante
- Un buon clacson
- Dei buoni freni
- Ed infine…. “GOOD LUCK”
La buona fortuna è garantita da un santino di Ganesh, il Dio con la testa di elefante, che, secondo i racconti di Probeet, per gli indiani è obbligatorio avere sul cruscotto.
Non sappiamo se credere a tutte le cose strane che ci racconta Probeet, ma di sicuro, a differenza di noi italiani, gli Hindù ai loro dei sono molto affezionati. Ce ne sono 33 milioni e quindi è difficile ricordarli tutti; così normalmente ognuno ne sceglie n po’, a piacimento, e li prega per aver fortuna, soldi e amore.
Il viaggio verso Agra è abbastanza lungo, ma veder sfilare dalla macchina i paesaggi lungo la strada fa parte dei piaceri di questo viaggio.
Durante il viaggio Probeet è molto loquace e ci racconta aspetti più disparati della cultura indiana, finiamo a parlare di caste.
La questione delle caste è l’aspetto più medievale del loro approccio con la vita. Anche oggi, a dispetto del progresso, le caste sopravvivono, con le loro regole, anche nelle città più grandi e progredite. Continuano ad esistere gli “intoccabili”, la casta più bassa, per la quale l’unico lavoro consentito è spazzare le strade e raccogliere gli escrementi. Gli intoccabili non possono entrare nei templi, ne andare a prendere l’acqua al pozzo comune, devono aspettare fuori che qualcuno la prenda per loro.
Tuttavia, il “dharma” induista, ovvero le buone azioni che devono realizzare per poter passare ad una casta più alta nella vita successiva, mette in tutto ciò un alone di grande rispetto e rende gli uni molto remissivi e pieni di accettazione e gli altri molto disponibili ad aiutarli. E’ come se la visione di una prospettiva più “allungata” della vita rispetto a noi occidentali, giustificasse e rendesse più facile accettare che una delle proprie vite possa essere meno brillante e dignitosa delle altre.
Tra le chiacchiere Probeet infila qualche aneddoto di cultura indiana che ci sorprende. In alcuni villaggi pare che la tradizione voglia che tutti i fratelli dello sposo possano “usare” (come dice Probeet) la sposa. L’unica accortezza per non essere disturbati nell’atto è di lasciare le scarpe fuori dall’ingresso. Se ci sono le scarpe, gli altri uomini non possono entrare!
Ho chiesto a Probeet se questo non innescasse mai della gelosia, ma la risponde tranquillamente sorridendo “Nooooo, wife is only to have children, why to be jealous? That has nothing to do with feeling!”…wow…per fortuna son nata in Italia!
In India le vedove si vestono di bianco e non possono più portare gingilli. La donna che perde il marito deve sembrare meno bella e meno attraente possibile per evitare agli altri uomini di cadere in tentazione. Al funerale tutti si vestono di bianco.. è interessante questa visione opposta dei colori rispetto alla nostra tradizione.
Agra si trova nella regione di Uthar Pradesh, una delle più criminose dell’India. Forse anche per questo motivo Prabeet si assicura che non diamo retta a nessuno quando siamo in giro per le strade.
Ci svegliamo all’alba per vedere una delle meraviglie di questa regione, il Taj Mahal, la più bella ed imponente tomba indiana. Le luci e la nebbia dell’alba rendono il paesaggio affascinante e, nonostante il freddo, scattiamo un’infinità di foto!
Durante il viaggio Probeet è molto loquace e ci racconta aspetti più disparati della cultura indiana, finiamo a parlare di caste.
La questione delle caste è l’aspetto più medievale del loro approccio con la vita. Anche oggi, a dispetto del progresso, le caste sopravvivono, con le loro regole, anche nelle città più grandi e progredite. Continuano ad esistere gli “intoccabili”, la casta più bassa, per la quale l’unico lavoro consentito è spazzare le strade e raccogliere gli escrementi. Gli intoccabili non possono entrare nei templi, ne andare a prendere l’acqua al pozzo comune, devono aspettare fuori che qualcuno la prenda per loro.
Tuttavia, il “dharma” induista, ovvero le buone azioni che devono realizzare per poter passare ad una casta più alta nella vita successiva, mette in tutto ciò un alone di grande rispetto e rende gli uni molto remissivi e pieni di accettazione e gli altri molto disponibili ad aiutarli. E’ come se la visione di una prospettiva più “allungata” della vita rispetto a noi occidentali, giustificasse e rendesse più facile accettare che una delle proprie vite possa essere meno brillante e dignitosa delle altre.
Tra le chiacchiere Probeet infila qualche aneddoto di cultura indiana che ci sorprende. In alcuni villaggi pare che la tradizione voglia che tutti i fratelli dello sposo possano “usare” (come dice Probeet) la sposa. L’unica accortezza per non essere disturbati nell’atto è di lasciare le scarpe fuori dall’ingresso. Se ci sono le scarpe, gli altri uomini non possono entrare!
Ho chiesto a Probeet se questo non innescasse mai della gelosia, ma la risponde tranquillamente sorridendo “Nooooo, wife is only to have children, why to be jealous? That has nothing to do with feeling!”…wow…per fortuna son nata in Italia!
In India le vedove si vestono di bianco e non possono più portare gingilli. La donna che perde il marito deve sembrare meno bella e meno attraente possibile per evitare agli altri uomini di cadere in tentazione. Al funerale tutti si vestono di bianco.. è interessante questa visione opposta dei colori rispetto alla nostra tradizione.
Agra si trova nella regione di Uthar Pradesh, una delle più criminose dell’India. Forse anche per questo motivo Prabeet si assicura che non diamo retta a nessuno quando siamo in giro per le strade.
Ci svegliamo all’alba per vedere una delle meraviglie di questa regione, il Taj Mahal, la più bella ed imponente tomba indiana. Le luci e la nebbia dell’alba rendono il paesaggio affascinante e, nonostante il freddo, scattiamo un’infinità di foto!
La tappa sucessiva è Jaipur, nel Rajastan. La strada è piena di piccoli e coloratissimi villaggi e di “fabbriche” per la costruzione di mattoni. Scorci di “vera India” si susseguono uno dopo l’altro ed io tento di catturare qualche foto senza disturbare Prabeet, anche se la tentazione sarebbe di farlo fermare ogni 10 metri.
Nel tragitto assistiamo a vari incidenti, uno dei quali ha dell’incredibile: un autobus troppo alto strappa un cavo elettrico passando sotto ad una serie di questi che attraversano la strada nel nulla della campagna indiana,. L’autobus non fa una piega e continua la sua strada senza nemmeno rallentare; tra l’autobus e noi c’è una moto con due tizi a bordo, ovviamente senza casco, il cavo li investe e loro cadono dalla moto.
Anche loro non fanno una piega, non insultano l’autobus, non si guardano attorno, risalgono in sella e ripartono come se nulla fosse mai accaduto! Probeet ride e dice “This is India!!”
Jaipur è la capitale del Rajasthan . E’ chiamata la città rosa per il colore delle pietre con le quali sono fatti numerosi edifici importanti, è famosa per pietre e gioielli, ma noi chiediamo gentilmente a Probeet di saltare a piè pari la visita a questi negozi, poiché non siamo molto attratti dagli acquisti.
Prima di visitare la città ci dedichiamo alla parte più turistica, visitiamo il forte Amber, il City Palace, il palazzo dei venti e l’osservatorio astrologico. Quest’ultimo è affascinate, gli indiani del passato non avevano nulla da invidiare alle tecnologia moderna riguardo alla conoscenza del cielo; ma anche qui trapela la cultura e la superstizione indiana, tanto da essersi inventati uno strumento in grado di formulare l’oroscopo calcolando la posizione astrale di stelle e pianeti. Pare che i potenti lo consultassero prima di prendere decisioni importanti.
Una volta adempiti i nostri compiti da turisti ci avventuriamo per i bazar della città. Stare in mezzo alla gente e mescolarci tra la folla per cogliere gli aspetti della “vera India” ci emoziona di più dei pacchetti “di plastica” ben confezionati per chi è qui in vacanza.
La città è caotica, piena di gente, ma non è un caos fastidioso, pressante… forse anche perché noi siamo in vacanza, ma da l’aria che si respira lascia trapelare comunque il pacifismo di questo popolo.
Concludiamo il pomeriggio nel cinema più grande e bello della città a goderci un film di “Bollywood”, all’interno tutto è in stile americano, ma adattato alla cultura indiana: con pavimenti a moquette, luci soffuse…sembra quasi di essere dentro ad una grande torta di fragola e panna montata. Nonostante il film che andiamo a vedere sia un musical molto conosciuto è purtroppo in Hindi, senza sottotitoli, la produzione è veramente spettacolare, soprattutto la sceneggiatura e la fotografia.
Quando , dopo un quarto d’ora, decidiamo di uscire, abbiamo in mente il semplice programma di mangiare qualcosa e tornare in albergo.
Ma non è quello che l’India ha in mente per noi!
Sulla strada per il ristorante veniamo bloccati da un ragazzo indiano particolarmente desideroso di incontrare gente di altre culture che si offre di accompagnarci col suo risciò a mangiare qualche cosa in un posto poco turistico dove vanno gli indiani. L’idea ci affascina e, dopo un po’ di titubanza iniziale,decidiamo di fidarci. Dopo cena ci accompagna nel suo appartamento (una stanza 2x2m). Il posto dove vive è una comunità tra le gente più povera di Jaipur, dove lui insegna musica a 95 bambini che altrimenti non avrebbero la possibilità di imparare. Una volta li chiama i suoi amici musicisti per suonare un po’ di musica.
Per la prima volta ci sentiamo in contatto con lei, l’India che ci aspettavamo di trovare.
Ci ritroviamo a cantare canzoni indiane al ritmo di tablà e ad insegnare loro “Il gatto e la volpe”. Bella serata, peccato che la magia un po’ si rompa perché il ragazzo inizia a parlarci del suo progetto in cerca di un contributo, ci viene un po’ il sospetto che questo fosse il fine della serata, è possibile che ci sia qualche cosa di buono e profondamente genuino in questo ragazzo, ma siamo tropo preparati al peggio per tirare fuori soldi in quel momento. Nel ricapitolare la serata scacciamo il pensiero e ringraziamo per i ritmi ed il calore che ci hanno fatto vivere.
Nel tragitto assistiamo a vari incidenti, uno dei quali ha dell’incredibile: un autobus troppo alto strappa un cavo elettrico passando sotto ad una serie di questi che attraversano la strada nel nulla della campagna indiana,. L’autobus non fa una piega e continua la sua strada senza nemmeno rallentare; tra l’autobus e noi c’è una moto con due tizi a bordo, ovviamente senza casco, il cavo li investe e loro cadono dalla moto.
Anche loro non fanno una piega, non insultano l’autobus, non si guardano attorno, risalgono in sella e ripartono come se nulla fosse mai accaduto! Probeet ride e dice “This is India!!”
Jaipur è la capitale del Rajasthan . E’ chiamata la città rosa per il colore delle pietre con le quali sono fatti numerosi edifici importanti, è famosa per pietre e gioielli, ma noi chiediamo gentilmente a Probeet di saltare a piè pari la visita a questi negozi, poiché non siamo molto attratti dagli acquisti.
Prima di visitare la città ci dedichiamo alla parte più turistica, visitiamo il forte Amber, il City Palace, il palazzo dei venti e l’osservatorio astrologico. Quest’ultimo è affascinate, gli indiani del passato non avevano nulla da invidiare alle tecnologia moderna riguardo alla conoscenza del cielo; ma anche qui trapela la cultura e la superstizione indiana, tanto da essersi inventati uno strumento in grado di formulare l’oroscopo calcolando la posizione astrale di stelle e pianeti. Pare che i potenti lo consultassero prima di prendere decisioni importanti.
Una volta adempiti i nostri compiti da turisti ci avventuriamo per i bazar della città. Stare in mezzo alla gente e mescolarci tra la folla per cogliere gli aspetti della “vera India” ci emoziona di più dei pacchetti “di plastica” ben confezionati per chi è qui in vacanza.
La città è caotica, piena di gente, ma non è un caos fastidioso, pressante… forse anche perché noi siamo in vacanza, ma da l’aria che si respira lascia trapelare comunque il pacifismo di questo popolo.
Concludiamo il pomeriggio nel cinema più grande e bello della città a goderci un film di “Bollywood”, all’interno tutto è in stile americano, ma adattato alla cultura indiana: con pavimenti a moquette, luci soffuse…sembra quasi di essere dentro ad una grande torta di fragola e panna montata. Nonostante il film che andiamo a vedere sia un musical molto conosciuto è purtroppo in Hindi, senza sottotitoli, la produzione è veramente spettacolare, soprattutto la sceneggiatura e la fotografia.
Quando , dopo un quarto d’ora, decidiamo di uscire, abbiamo in mente il semplice programma di mangiare qualcosa e tornare in albergo.
Ma non è quello che l’India ha in mente per noi!
Sulla strada per il ristorante veniamo bloccati da un ragazzo indiano particolarmente desideroso di incontrare gente di altre culture che si offre di accompagnarci col suo risciò a mangiare qualche cosa in un posto poco turistico dove vanno gli indiani. L’idea ci affascina e, dopo un po’ di titubanza iniziale,decidiamo di fidarci. Dopo cena ci accompagna nel suo appartamento (una stanza 2x2m). Il posto dove vive è una comunità tra le gente più povera di Jaipur, dove lui insegna musica a 95 bambini che altrimenti non avrebbero la possibilità di imparare. Una volta li chiama i suoi amici musicisti per suonare un po’ di musica.
Per la prima volta ci sentiamo in contatto con lei, l’India che ci aspettavamo di trovare.
Ci ritroviamo a cantare canzoni indiane al ritmo di tablà e ad insegnare loro “Il gatto e la volpe”. Bella serata, peccato che la magia un po’ si rompa perché il ragazzo inizia a parlarci del suo progetto in cerca di un contributo, ci viene un po’ il sospetto che questo fosse il fine della serata, è possibile che ci sia qualche cosa di buono e profondamente genuino in questo ragazzo, ma siamo tropo preparati al peggio per tirare fuori soldi in quel momento. Nel ricapitolare la serata scacciamo il pensiero e ringraziamo per i ritmi ed il calore che ci hanno fatto vivere.
Il giorno seguente ci aspetta Pushkar e la sua grande fiera del bestiame. Il viaggio è più breve dei precedenti e lungo la strada si vedono le prime montagne. Arriviamo al nostro “Exotic camp”, un bel accampamento attrezzato per i turisti in occasione della fiera, intorno a mezzo giorno e, una volta sistemati i bagagli, ci lanciamo immediatamente verso la fiera. Piombiamo nel mezzo degli accampamenti dei mercanti di bestiame e passiamo gradatamente dalla fiera vera e propria ad una specie di galattico luna-park Indiano super-caotico e non molto attraente.
Il clima è festoso e molto particolare, ma la fiera e tutto quanto ci sta attorno non ha niente a che vedere con il paese di Pushkar di cui invece ci innamoriamo subito.
Innanzitutto, è un’area quasi completamente pedonale, finalmente, e possiamo camminare liberamente tra i negozi del centro, che sono tra i più belli che abbiamo visto fino ad ora.
Pushkar è una città santa per gli indiani e le acque del lago su cui nasce sono sacre. Per questa ragione migliaia di pellegrini arrivano qui da tutta l’India per fare il bagno su uno dei “ghat”, gli accessi al fiume tramite gradinate. Questo aspetto spirituale della cittadina ne influenza la vita ed è facilmente percepibile anche da chi non appartiene alla religione hindù.
Quando il sole comincia a tramontare le decorazioni luminose della festa rendono il momento quasi magico, mentre gli indiani continuano incessantemente i loro bagni alla luce delle candele accese sulle rive del lago. E a rendere ancora più meraviglioso il luogo ci sono le scimmie. La città ne è invasa, ma c’è un particolare “ghat” dove le scimmie convivono a stretto contatto con l’uomo ed è possibile avvicinarle. Il nostro impatto è un po’ brusco perché indossiamo ancora la corona di fiori di benvenuto, cibo prelibato per le scimmie! Ma a parte questo vedere le scimmie così da vicino e poterle fotografare è fantastico! Hanno molti atteggiamenti impressionatamente umani e sono agilissime. Rimaniamo un sacco ad osservarle e staremmo lì ancora per ore, ma quello che ci convince ad andarcene è il desiderio di completare il giro del lago.
Prima di arrivare dall’altro lato passiamo per una piazza famosa per la presenza di hippy. C’è un europeo dall’aria trasandata ed un po’ annebbiata dalle droghe che, vestito da monaco hindù, danza incessantemente a ritmo di tam-tam, quasi in trans. Attraversando a piedi scalzi il ponte entriamo nella zona dei templi, all’interno dei quali dormono i monaci. Al tramonto si radunano tutti attorno a piccoli falò in riva al lago dove cucinano la loro cena fumando.
Quando la luce del sole se n’è andata del tutto ci dirigiamo verso la zona della fiera dedicata agli spettacoli. Il grande cortile è pieno di “camel-cars” e di indiani che tentano di venderci ogni cosa possibile. Di fronte al palco i posti a sedere sono diversificati, vanno da dei lunghi teli di nailon distesi per terra a alcuni (pochissimi) materassi ricoperti da un telo bianco, pensiamo che sia una loro personale interpretazione della suddivisione per caste, ma chiediamo comunque ad un indiano per chi sono i materassi vuoti. Lui risponde “They are for V.I.P.s!”, noi gli diciamo “Ah ok… we are V.I.P.s!!!” e ci concediamo il posto d’onore!
Il clima è festoso e molto particolare, ma la fiera e tutto quanto ci sta attorno non ha niente a che vedere con il paese di Pushkar di cui invece ci innamoriamo subito.
Innanzitutto, è un’area quasi completamente pedonale, finalmente, e possiamo camminare liberamente tra i negozi del centro, che sono tra i più belli che abbiamo visto fino ad ora.
Pushkar è una città santa per gli indiani e le acque del lago su cui nasce sono sacre. Per questa ragione migliaia di pellegrini arrivano qui da tutta l’India per fare il bagno su uno dei “ghat”, gli accessi al fiume tramite gradinate. Questo aspetto spirituale della cittadina ne influenza la vita ed è facilmente percepibile anche da chi non appartiene alla religione hindù.
Quando il sole comincia a tramontare le decorazioni luminose della festa rendono il momento quasi magico, mentre gli indiani continuano incessantemente i loro bagni alla luce delle candele accese sulle rive del lago. E a rendere ancora più meraviglioso il luogo ci sono le scimmie. La città ne è invasa, ma c’è un particolare “ghat” dove le scimmie convivono a stretto contatto con l’uomo ed è possibile avvicinarle. Il nostro impatto è un po’ brusco perché indossiamo ancora la corona di fiori di benvenuto, cibo prelibato per le scimmie! Ma a parte questo vedere le scimmie così da vicino e poterle fotografare è fantastico! Hanno molti atteggiamenti impressionatamente umani e sono agilissime. Rimaniamo un sacco ad osservarle e staremmo lì ancora per ore, ma quello che ci convince ad andarcene è il desiderio di completare il giro del lago.
Prima di arrivare dall’altro lato passiamo per una piazza famosa per la presenza di hippy. C’è un europeo dall’aria trasandata ed un po’ annebbiata dalle droghe che, vestito da monaco hindù, danza incessantemente a ritmo di tam-tam, quasi in trans. Attraversando a piedi scalzi il ponte entriamo nella zona dei templi, all’interno dei quali dormono i monaci. Al tramonto si radunano tutti attorno a piccoli falò in riva al lago dove cucinano la loro cena fumando.
Quando la luce del sole se n’è andata del tutto ci dirigiamo verso la zona della fiera dedicata agli spettacoli. Il grande cortile è pieno di “camel-cars” e di indiani che tentano di venderci ogni cosa possibile. Di fronte al palco i posti a sedere sono diversificati, vanno da dei lunghi teli di nailon distesi per terra a alcuni (pochissimi) materassi ricoperti da un telo bianco, pensiamo che sia una loro personale interpretazione della suddivisione per caste, ma chiediamo comunque ad un indiano per chi sono i materassi vuoti. Lui risponde “They are for V.I.P.s!”, noi gli diciamo “Ah ok… we are V.I.P.s!!!” e ci concediamo il posto d’onore!
Il mattino seguente la sveglia è alle 4.30, è ancora freddo ed il cielo è pieno di stelle. Ci aspetta all’ingresso del camping il “Camel-car” che abbiamo prenotato sfidando la loro perplessità la sera prima. La nostra meta è lo Saraswati Temple, un monastero in cima alla collina che sovrasta Pushkar. Il programma è che il “taxi” ci porti fino ai piedi della collina e poi saliremo a piedi per circa un’ora alla luce della luna piena per arrivare alla cima appena prima dell’alba. Il ritmo lento del cammello rende particolarmente suggestivi i 40 minuti di strada che ci separano dall’inizio del cammino. Attraversare la fiera e gli accampamenti dei commercianti di notte, senza la caotica confusione del giorno, è affascinante. Il campo è vivo, ma tranquillo,ci sono dei focolari accesi ed alcune persone silenziose attorno ad essi. Noi passiamo come un miraggio per la gente del posto che probabilmente non è abituata a stranieri nelle ore notturne. Arrivati ai piedi del monte ci troviamo di fronte ad una ripida salita, è faticoso salire, ma ci appaga il fatto di essere completamente soli in mezzo a questa natura così diversa dalla nostra. Raggiungiamo la cima prima che i monaci intonino il loro saluto al sole fatto da un vivace ritmo di tablà. Questi suoni indicano anche il momento in cui il monastero apre le porte al mondo esterno. Guardiamo l’alba da una fantastica terrazza all’interno dell’edificio. Da quassù si domina Pushcar e tutta la vallata. Dopo un po’ riprendiamo la via del ritorno, ai piedi del monte passiamo qualche ora in chiacchiere al bar di Sundeep, un ragazzo socievole e molto sveglio che, offrendoci un ottimo the indiano dal suo baretto ci racconta alcuni aneddoti interessanti della sua religione “because if you have money honestly they stay otherwise they will go very easly”…”if my Karma is good I can have a better life, if I help people and I make them happy I have a good Karma”…. Quante emozioni in questa Pushkar!!!
Il giorno seguente si parte per Udaipur. Il paesaggio ancora una volta è molto suggestivo ed ovunque, nella campagna, si scorgono i sari colorati delle donne indiane affaccendate nei lavori dei campi. Lungo la strada scorgiamo da lontano un piccolo matrimonio di campagna e chiediamo a Probeet di fermarci. Gli indiani ci invitano ad entrare in un piccolo tempio per festeggiare con loro. Non c’è cerimonia, solo alcuni dolci da mangiare, sono molto gentili e curiosi, soprattutto del funzionamento della mia macchina fotografica. Gli sposi se ne stanno in disparte, non sembrano particolarmente felici ne coinvolti dai festeggiamenti e non sembrano nemmeno particolarmente innamorati. In quel momento ripenso alle parole di Probeet “Wife is only to make children….”
Riprendiamo il nostro viaggio per Udaipur lasciandoli con un sorriso stampato sul viso. Arriviamo alla meta alle 4 del pomeriggio e ci riposiamo in hotel fino a sera, quando assistiamo ad un suggestivo spettacolo di danze e musiche popolari dentro il cortile di un bellissimo haveli.
Al mattino alle 9:00 cominciamo subito la nostra attività turistica con un giro in barca attorno al lago principale. Il giro è un po’ ridotto a causa di un importante matrimonio che ha riservato tutte le barche per la giornata, ma per quello che ha da offrirci è più che sufficiente. Adempiamo i nostri oneri da turisti con una anonima visita ai giardini, al city palace ed al tempio prima di abbandonarci al nostro fuori programma. Uscendo dal ristorante dopo pranzo siamo alla ricerca di un risciò, è qui che troviamo la nostra guida di Udaipur. Si chiama Lucky, è un ragazzo che guida il risciò per pagarsi una sorta di scuola d’arte ed ha 26 anni. E’ veramente simpatico ed è bravo a proporre una serie di tour fuori porta, tanto che alla fine passiamo tutto il pomeriggio con lui. Le tappe sono quattro. Dapprima visitiamo un negozio dove ci fanno vedere come si colorano le stoffe con una specie di arte “a blocchi” in cui il disegno viene riprodotto tramite accostamento su stampi decorati. La seconda tappa è un finto villaggio indiano, ricreato per i turisti, nel quale vengono riprodotte le costruzioni e le abitazioni tipiche oltre a balli e canti di varie parti dell’india. La parte migliore del tour pomeridiano è sicuramente la visita al Monson Palace, che dall’alto delle sue finestre domina il panorama di Udaipur. Quarta e ultima tappa della visita è la scuola d’arte dove studia Lucky, dove assistiamo ad una dimostrazione dell’arte delle miniature Menar. Le miniature sono affascinanti e quasi ipnotiche per la loro maniacale precisione nei dettagli, ma costose e soprattutto non incontrano i nostri gusti e, per la delusione del maestro di Lucky, ce ne usciamo a mani vuote.
Riprendiamo il nostro viaggio per Udaipur lasciandoli con un sorriso stampato sul viso. Arriviamo alla meta alle 4 del pomeriggio e ci riposiamo in hotel fino a sera, quando assistiamo ad un suggestivo spettacolo di danze e musiche popolari dentro il cortile di un bellissimo haveli.
Al mattino alle 9:00 cominciamo subito la nostra attività turistica con un giro in barca attorno al lago principale. Il giro è un po’ ridotto a causa di un importante matrimonio che ha riservato tutte le barche per la giornata, ma per quello che ha da offrirci è più che sufficiente. Adempiamo i nostri oneri da turisti con una anonima visita ai giardini, al city palace ed al tempio prima di abbandonarci al nostro fuori programma. Uscendo dal ristorante dopo pranzo siamo alla ricerca di un risciò, è qui che troviamo la nostra guida di Udaipur. Si chiama Lucky, è un ragazzo che guida il risciò per pagarsi una sorta di scuola d’arte ed ha 26 anni. E’ veramente simpatico ed è bravo a proporre una serie di tour fuori porta, tanto che alla fine passiamo tutto il pomeriggio con lui. Le tappe sono quattro. Dapprima visitiamo un negozio dove ci fanno vedere come si colorano le stoffe con una specie di arte “a blocchi” in cui il disegno viene riprodotto tramite accostamento su stampi decorati. La seconda tappa è un finto villaggio indiano, ricreato per i turisti, nel quale vengono riprodotte le costruzioni e le abitazioni tipiche oltre a balli e canti di varie parti dell’india. La parte migliore del tour pomeridiano è sicuramente la visita al Monson Palace, che dall’alto delle sue finestre domina il panorama di Udaipur. Quarta e ultima tappa della visita è la scuola d’arte dove studia Lucky, dove assistiamo ad una dimostrazione dell’arte delle miniature Menar. Le miniature sono affascinanti e quasi ipnotiche per la loro maniacale precisione nei dettagli, ma costose e soprattutto non incontrano i nostri gusti e, per la delusione del maestro di Lucky, ce ne usciamo a mani vuote.
Il giorno dopo la sveglia è puntata all’alba. Ci aspetta un lungo viaggio verso Jodhpur. Lungo la strada facciamo una tappa fuori programma a Ranakpur, località famosa per una serie di templi meravigliosi giainisti. Scendiamo senza troppe aspettative. Una cosa che amo dell’india è il riuscire sempre, in un modo o nell’altro, a stupirmi! Il tempio principale è qualche cosa di maestoso, curato nei particolari e “speciale”. Ci stupiamo del fatto che non fosse segnato nel nostro programma come tappa obbligatoria. Ci sono all’interno centinaia di colonne tutte scolpite nei minimi particolari ed una diversa dall’altra. I giainisti hanno le loro regole ferree, non mangiano alcun tipo di animale, filtrano l’acqua prima di bere per assicurarsi di non ingerire forme di vita. Per questi motivi si entra rigorosamente scalzi ed è proibito accedere al tempio con acqua ed oggetti in pelle. Rimaniamo incantati dal silenzio, dalla sacralità e dalla perfezione del posto. A renderlo un po’ più magico è la gente in preghiera che disegna dei rudimentali mandala con dei chicchi di riso.
Ripreso il nostro cammino, lungo la strada Prabeet ci fa vedere una serie di persone che pregano davanti ad una motocicletta ricoperta di fiori. Ci spiega che vent’anni prima un indiano è morto cadendo da quella moto a qualche km di distanza e la moto è arrivata da sola fino a lì. Per questo motivo viene venerata come fosse un Dio. Questa cosa ci fa sorridere. Sembra che per gli indiani ogni pretesto sia la scusa per creare un nuovo Dio da adorare, una nuova storia da tramandare. Sorridiamo e pensiamo che tutto questo fa parte della bellezza dei colori dell’india, fa parte del loro colorato modo di vedere la vita.
Arriviamo a Jodhpur dopo il tramonto, ci sistemiamo in un bel haveli e dopo la doccia usciamo in cerca di un posto dove mangiare. L’idea è di trovare un ristorante lungo la strada, ma ancora una volta l’india ha in serbo ben altri programmi per noi! Appena usciti dall’hotel si avvicina un bambino che ci guida verso una di musiche e voci che ci incuriosiscono. Si tratta della processione di uno sposo. Questa volta il matrimonio è molto più fastoso di quello che abbiamo visto in campagna. Lo sposo sfila serio e sfarzoso, con un turbante rosso in testa, sopra un cavallo bianco, mentre parenti ed amici ridono, cantano e ballano accompagnati da una banda musicale. La processione dello sposo è curiosamente delimitata da alcune persone che, in ambo i lati, tengono dei lampadari ambulanti in testa, collegate con un filo elettrico ad un generatore in fondo alla fila. La nostra curiosità ha la meglio sulla fame e così seguiamo entusiasti la processione con l’intento di scattare qualche foto. Ogni tanto i musici si fermano e creano un piccolo cerchio, all’interno del quale si scatenano i parenti dello sposo. Dopo aver rifiutato varie volte l’invito da uno dei musicisti ad entrare nel cerchio a ballare, si avvicina a noi un giovane ragazzo particolarmente elegante che scopriremo poi essere il cugino dello sposo. A quel punto non possiamo più rifiutare e, con immenso piacere, ci uniamo ai festeggiamenti! È buffo perché gli invitati sono tutti particolarmente attratti dalla nostra presenza e soprattutto dalla mia macchina fotografica. I bimbi mi chiedono di continuo di scattare foto e poi fargliele vedere. Per loro è un evento! Rupesh e suo fratello non ci abbandonano mai e noi ci lasciamo presto contagiare dai loro balli scatenati. Per proseguire bisogna prendere un autobus che ci porta al luogo previsto per la celebrazione. All’ingresso della sala a tutti gli invitati viene regalato un fiore infilato in uno stuzzicadenti e bisogna attraversare un tunnel di persone che ti spruzzano addosso quintali di profumo. La “stanza” non è altro che un enorme prato ai bordi del quale c’è un grande buffet. Il cibo ha un aspetto tutt’altro che invitante e la parola “igiene” sembra essere sconosciuta a questo luogo. Alla terza proposta di un bicchiere d’acqua e avendo una gran sente decidiamo un po’ perplessi di accettare l’offerta. La sposa arriva in un bellissimo sari rosso rifinito e decorato nei minimi dettagli, è piena di gioielli ed è molto bella. Peccato che porti con lei un’espressione “di plastica” che non lascia trasparire un minimo cenno di felicità. Sembra che in un matrimonio indiano gli sposi non siano affatto protagonisti, ma che facciano piuttosto da contorno ai festeggiamenti degli invitati, come fossero solo una coreografia. I due festeggiati infatti non mangiano, non ballano, non ridono, non si baciano, non si sfiorano, non si baciano. Stanno seduti su una specie di “trono” per un tempo interminabile, l’unico movimento si verifica in quello che per noi rappresenta lo scambio degli anelli, ma che per loro si svolge con uno scambio delle corone di fiori che i due portano al collo. Ci accompagnano a casa Rupesh ed il fratello con le loro motociclette. Guidano come dei pazzi e nel mio motorino siamo in tre a bordo! Al momento dei saluti li ringraziamo per la meravigliosa serata e per la loro gentilezza e simpatia, ci hanno fatto sentire come parte di loro e questo è uno dei più bei regali della nostra India! Una volta in camera facciamo fatica ad addormentarci, la pancia e lo stomaco ahimè…invocano pietà! Mannaggia all’acqua e al cibo matrimoniali!! Il giorno seguente la splendida Jodhpur ci aspetta lì fuori, ma attenderà invano, al di la di una breve visita al forte che ricordiamo più come una fatica che altro, passiamo la giornata a letto, completamente debilitati, in attesa di tempi migliori.
Ripreso il nostro cammino, lungo la strada Prabeet ci fa vedere una serie di persone che pregano davanti ad una motocicletta ricoperta di fiori. Ci spiega che vent’anni prima un indiano è morto cadendo da quella moto a qualche km di distanza e la moto è arrivata da sola fino a lì. Per questo motivo viene venerata come fosse un Dio. Questa cosa ci fa sorridere. Sembra che per gli indiani ogni pretesto sia la scusa per creare un nuovo Dio da adorare, una nuova storia da tramandare. Sorridiamo e pensiamo che tutto questo fa parte della bellezza dei colori dell’india, fa parte del loro colorato modo di vedere la vita.
Arriviamo a Jodhpur dopo il tramonto, ci sistemiamo in un bel haveli e dopo la doccia usciamo in cerca di un posto dove mangiare. L’idea è di trovare un ristorante lungo la strada, ma ancora una volta l’india ha in serbo ben altri programmi per noi! Appena usciti dall’hotel si avvicina un bambino che ci guida verso una di musiche e voci che ci incuriosiscono. Si tratta della processione di uno sposo. Questa volta il matrimonio è molto più fastoso di quello che abbiamo visto in campagna. Lo sposo sfila serio e sfarzoso, con un turbante rosso in testa, sopra un cavallo bianco, mentre parenti ed amici ridono, cantano e ballano accompagnati da una banda musicale. La processione dello sposo è curiosamente delimitata da alcune persone che, in ambo i lati, tengono dei lampadari ambulanti in testa, collegate con un filo elettrico ad un generatore in fondo alla fila. La nostra curiosità ha la meglio sulla fame e così seguiamo entusiasti la processione con l’intento di scattare qualche foto. Ogni tanto i musici si fermano e creano un piccolo cerchio, all’interno del quale si scatenano i parenti dello sposo. Dopo aver rifiutato varie volte l’invito da uno dei musicisti ad entrare nel cerchio a ballare, si avvicina a noi un giovane ragazzo particolarmente elegante che scopriremo poi essere il cugino dello sposo. A quel punto non possiamo più rifiutare e, con immenso piacere, ci uniamo ai festeggiamenti! È buffo perché gli invitati sono tutti particolarmente attratti dalla nostra presenza e soprattutto dalla mia macchina fotografica. I bimbi mi chiedono di continuo di scattare foto e poi fargliele vedere. Per loro è un evento! Rupesh e suo fratello non ci abbandonano mai e noi ci lasciamo presto contagiare dai loro balli scatenati. Per proseguire bisogna prendere un autobus che ci porta al luogo previsto per la celebrazione. All’ingresso della sala a tutti gli invitati viene regalato un fiore infilato in uno stuzzicadenti e bisogna attraversare un tunnel di persone che ti spruzzano addosso quintali di profumo. La “stanza” non è altro che un enorme prato ai bordi del quale c’è un grande buffet. Il cibo ha un aspetto tutt’altro che invitante e la parola “igiene” sembra essere sconosciuta a questo luogo. Alla terza proposta di un bicchiere d’acqua e avendo una gran sente decidiamo un po’ perplessi di accettare l’offerta. La sposa arriva in un bellissimo sari rosso rifinito e decorato nei minimi dettagli, è piena di gioielli ed è molto bella. Peccato che porti con lei un’espressione “di plastica” che non lascia trasparire un minimo cenno di felicità. Sembra che in un matrimonio indiano gli sposi non siano affatto protagonisti, ma che facciano piuttosto da contorno ai festeggiamenti degli invitati, come fossero solo una coreografia. I due festeggiati infatti non mangiano, non ballano, non ridono, non si baciano, non si sfiorano, non si baciano. Stanno seduti su una specie di “trono” per un tempo interminabile, l’unico movimento si verifica in quello che per noi rappresenta lo scambio degli anelli, ma che per loro si svolge con uno scambio delle corone di fiori che i due portano al collo. Ci accompagnano a casa Rupesh ed il fratello con le loro motociclette. Guidano come dei pazzi e nel mio motorino siamo in tre a bordo! Al momento dei saluti li ringraziamo per la meravigliosa serata e per la loro gentilezza e simpatia, ci hanno fatto sentire come parte di loro e questo è uno dei più bei regali della nostra India! Una volta in camera facciamo fatica ad addormentarci, la pancia e lo stomaco ahimè…invocano pietà! Mannaggia all’acqua e al cibo matrimoniali!! Il giorno seguente la splendida Jodhpur ci aspetta lì fuori, ma attenderà invano, al di la di una breve visita al forte che ricordiamo più come una fatica che altro, passiamo la giornata a letto, completamente debilitati, in attesa di tempi migliori.
Dopo una nottata all’insegna del controllare se le cose migliorano, ci svegliamo in uno stato che, se non è paradisiaco, ci permette almeno di proseguire il viaggio. Ma questo giorno passato a letto non è esente da conseguenze nel nostro futuro in India. Tutto il lato più sporco ed indigesto ai nostri gusti europei, che per giorni era sovrastato dalla nostra ansia di conoscere, capire ed esplorare adesso esplode con forza davanti ai nostri occhi e soprattutto davanti ai nostri nasi. L’India non è più colore e folclore, è soprattutto odori malsani lungo le strade, piatti troppo speziati, pan e calce dolciastro masticati in continuazione contro ogni senso del gusto…
La città di Jaisalmer, inoltre, non ci aiuta. Ci arriviamo in tempo per passeggiare prima del tramonto ed è una meravigliosa passeggiata all’interno di una città racchiusa da un forte dorato che domina tutto la pianura circostante. Questo è, dopo Pushkar, sicuramente uno dei luoghi più belli dell’India. Allo stesso tempo però è uno dei posti più sporchi che abbiamo visto fino ad ora: le fogne sono a cielo aperto, le mucche sono a migliaia ed intasano le strette viottole con la loro ingombrante presenza e con quintali di cacca la cui puzza impregna i muri e le strade della città ed il nostro stomaco in lenta via di guarigione, ancora una volta, invoca pietà. Ci godiamo il tramonto sopra uno dei tetti più alti della città, è veramente magico il calar del sole sul Thar Desert, i muri in terra delle case dentro il forte prendono un colore dorato e la vastità del deserto circostante cambia tonalità di continuo. Una volta tramontato il sole torniamo in albergo, non tanto per vera stanchezza, ma per staccarci dagli odori della città. Il tratto dalle mura fino all’albergo è vera India, camminare è un inferno, mentre gli indiani camminano con disinvoltura e calma stoica, noi quasi ci ammazziamo nel tentativo di evitare cacche, animali, fogne, mucche non sempre tranquille (una mi punta con le corna), moto e macchine che suonano il clacson in continuazione. Il distacco dalla vita indiana oggi è talmente forte che, piuttosto che mangiare al ristorante, rinunciamo alla cena. Il sodalizio tra noi e l’India e la sensazione che ci aveva accompagnato fino a qui di essere vicini a questo popolo più di quanto usi e costumi potessero dire, sembrano averci abbandonato…
Al risveglio cerchiamo di capire come e quanto siamo malati. Dopo la giornata a Jodhpur ci sembra un miracolo di non risentire in maniera pesante di quanto è successo. Non siamo in splendida forma, ma siamo vivi e, pur nel suo caos, Jaisalmer merita di essere visitata! La città dentro al forte è quasi completamente pedonale e questo è talmente raro in India che deve essere sfruttato. Compriamo un “singing bowl” in un angolo di quiete e pace buddista della città in totale antitesi con le condizioni al contorno.
Quello che ai nostri occhi appare più evidente e che non ci aspettavamo prima di partire è una quasi totale assenza di spiritualità. C’è in loro un profondo senso di religiosità e sacralità, tanto da spingerli a venerare qualsiasi oggetto o animale che la loro fantasia dipinga come oggetto di culto. Questo tipo di atteggiamento da una parte favorisce il rispetto della natura, l’amore per tutte le cose e la non discriminazione degli altri e delle altre religioni, dall’altra sembra non lasciare spazio all’esplorazione dell’ “io”, dei limiti umani, della vicinanza spirituale al nostro Dio interiore. La spinta al miglioramento è spesso assente perché piuttosto che prendersene la responsabilità, l’indiano preferisce affidarla alla venerazione e il raggiungimento dei propri obiettivi è un dono degli dei piuttosto che il frutto dei propri sforzi. Abbiamo la sensazione che manchi il dialogo con lo spirito perché ci sono 33.000 dei intermediari che si frappongono tra gli indiani e le loro vite future, ed il karma impone di trattare bene e con rispetto quanto è fuori di noi, ma non parla del rispetto verso noi stessi, verso le proprie idee, i propri talenti. A guardare da fuori, il sentimento predominante sembra la rassegnazione, una pacifica e sottomessa rassegnazione al potere gratificante del Dharma; il quale promette, in cambio di una vita vissuta al riparo di limiti imposti dalla propria casta, una migliore vita futura. Eppure tutto questo sembra essere negato dai colori, dalla vita e dalla grazia degli indiani, dalla vivacità e simpatia della bambina di Jaisalmer che, il giorno dopo averci conosciuto per strada, ricorda i nostri nomi e ci chiama gridando dal tuc-tuc che la sta portando a scuola.
Per tentare di ristabilire il nostro contatto con l’india proviamo il massaggio ayurvedico, che è stato inventato in India e dovrebbe aiutarci a rimetterci in sesto. Al pomeriggio ci sacrifichiamo ai programmi turistici che Probeet ha in serbo per noi e affrontiamo quasi con rassegnazione indiana il “camel safari” verso il deserto. Questo momento è il culmine dell’inutilità. Questo momento è il culmine dell’inutilità. Dobbiamo sorbirci un’ora di macchina per vedere un piccolo villaggio abituato al turismo di massa e per godere di 10 minuti di passeggiata sul cammello che ci porta in cima ad una duna a vedere il tramonto. Non è poi tutto da buttare e c’è poi un certo fascino in questa atmosfera, ma la duna su cui siamo è stracolma di turisti e sembra tutto poco sensato e molto costruito. Così appena tramonta il sole ripartiamo per un’altra ora di macchina verso la città. E’ da questo momento che inizia a formarsi l’dea che forse il tour del Rajasthan avrebbe dovuto terminare qui e che la nostra vacanza avrebbe bisogno di stimoli nuovi.
La città di Jaisalmer, inoltre, non ci aiuta. Ci arriviamo in tempo per passeggiare prima del tramonto ed è una meravigliosa passeggiata all’interno di una città racchiusa da un forte dorato che domina tutto la pianura circostante. Questo è, dopo Pushkar, sicuramente uno dei luoghi più belli dell’India. Allo stesso tempo però è uno dei posti più sporchi che abbiamo visto fino ad ora: le fogne sono a cielo aperto, le mucche sono a migliaia ed intasano le strette viottole con la loro ingombrante presenza e con quintali di cacca la cui puzza impregna i muri e le strade della città ed il nostro stomaco in lenta via di guarigione, ancora una volta, invoca pietà. Ci godiamo il tramonto sopra uno dei tetti più alti della città, è veramente magico il calar del sole sul Thar Desert, i muri in terra delle case dentro il forte prendono un colore dorato e la vastità del deserto circostante cambia tonalità di continuo. Una volta tramontato il sole torniamo in albergo, non tanto per vera stanchezza, ma per staccarci dagli odori della città. Il tratto dalle mura fino all’albergo è vera India, camminare è un inferno, mentre gli indiani camminano con disinvoltura e calma stoica, noi quasi ci ammazziamo nel tentativo di evitare cacche, animali, fogne, mucche non sempre tranquille (una mi punta con le corna), moto e macchine che suonano il clacson in continuazione. Il distacco dalla vita indiana oggi è talmente forte che, piuttosto che mangiare al ristorante, rinunciamo alla cena. Il sodalizio tra noi e l’India e la sensazione che ci aveva accompagnato fino a qui di essere vicini a questo popolo più di quanto usi e costumi potessero dire, sembrano averci abbandonato…
Al risveglio cerchiamo di capire come e quanto siamo malati. Dopo la giornata a Jodhpur ci sembra un miracolo di non risentire in maniera pesante di quanto è successo. Non siamo in splendida forma, ma siamo vivi e, pur nel suo caos, Jaisalmer merita di essere visitata! La città dentro al forte è quasi completamente pedonale e questo è talmente raro in India che deve essere sfruttato. Compriamo un “singing bowl” in un angolo di quiete e pace buddista della città in totale antitesi con le condizioni al contorno.
Quello che ai nostri occhi appare più evidente e che non ci aspettavamo prima di partire è una quasi totale assenza di spiritualità. C’è in loro un profondo senso di religiosità e sacralità, tanto da spingerli a venerare qualsiasi oggetto o animale che la loro fantasia dipinga come oggetto di culto. Questo tipo di atteggiamento da una parte favorisce il rispetto della natura, l’amore per tutte le cose e la non discriminazione degli altri e delle altre religioni, dall’altra sembra non lasciare spazio all’esplorazione dell’ “io”, dei limiti umani, della vicinanza spirituale al nostro Dio interiore. La spinta al miglioramento è spesso assente perché piuttosto che prendersene la responsabilità, l’indiano preferisce affidarla alla venerazione e il raggiungimento dei propri obiettivi è un dono degli dei piuttosto che il frutto dei propri sforzi. Abbiamo la sensazione che manchi il dialogo con lo spirito perché ci sono 33.000 dei intermediari che si frappongono tra gli indiani e le loro vite future, ed il karma impone di trattare bene e con rispetto quanto è fuori di noi, ma non parla del rispetto verso noi stessi, verso le proprie idee, i propri talenti. A guardare da fuori, il sentimento predominante sembra la rassegnazione, una pacifica e sottomessa rassegnazione al potere gratificante del Dharma; il quale promette, in cambio di una vita vissuta al riparo di limiti imposti dalla propria casta, una migliore vita futura. Eppure tutto questo sembra essere negato dai colori, dalla vita e dalla grazia degli indiani, dalla vivacità e simpatia della bambina di Jaisalmer che, il giorno dopo averci conosciuto per strada, ricorda i nostri nomi e ci chiama gridando dal tuc-tuc che la sta portando a scuola.
Per tentare di ristabilire il nostro contatto con l’india proviamo il massaggio ayurvedico, che è stato inventato in India e dovrebbe aiutarci a rimetterci in sesto. Al pomeriggio ci sacrifichiamo ai programmi turistici che Probeet ha in serbo per noi e affrontiamo quasi con rassegnazione indiana il “camel safari” verso il deserto. Questo momento è il culmine dell’inutilità. Questo momento è il culmine dell’inutilità. Dobbiamo sorbirci un’ora di macchina per vedere un piccolo villaggio abituato al turismo di massa e per godere di 10 minuti di passeggiata sul cammello che ci porta in cima ad una duna a vedere il tramonto. Non è poi tutto da buttare e c’è poi un certo fascino in questa atmosfera, ma la duna su cui siamo è stracolma di turisti e sembra tutto poco sensato e molto costruito. Così appena tramonta il sole ripartiamo per un’altra ora di macchina verso la città. E’ da questo momento che inizia a formarsi l’dea che forse il tour del Rajasthan avrebbe dovuto terminare qui e che la nostra vacanza avrebbe bisogno di stimoli nuovi.
Il nostro stomaco fa fatica a riprendersi e le nostre prossime mete non ci attraggono gran che e, a conferma delle nostre aspettative, Bikanner non ha nulla da offre. Sembra quasi che abbiamo concluso il nostro dialogo con questa terra. Rifiutiamo l’India e l’India, di tutta risposta, ci rifiuta prepotentemente. Ancora due giorni che trascorrono in modo lento ed anonimo ci separano da Delhi, la nostra destinazione finale.
Nel viaggio finale verso la grande città conosciamo ancora un po’ meglio Probeet, il nostro compagno di viaggio. Scopriamo che non è veramente vegetariano, ma lo è diventato da poco perché si trova sotto l’influenza del “presidente delle stelle”, il quale non apprezza che si mangi carne. E’ un altro spaccato di superstizione indiana fatta di persone che si sposano solo con l’autorizzazione del “prete-astrologo” o che si ritrova a diventare vegetariano per ribaltare una situazione di vita sfortunata. Pare che Prabeet, prima di scarrozzarci per l’India, fosse in un periodo di calo lavorativo e che la moglia, preoccupata dalla mancanza di soldi, fosse andata dal santone il quale le ha annunciato che se suo marito voleva trovare lavoro doveva rinunciare alla carne. Così, in seguito a questo sua variazione nello stile di vita, siamo arrivati noi, dono per la sua ripresa economica e conferma, nel quadro generale delle cose, della validità della religione Indù, che Probeet stesso definisce “semplice e che funziona bene!”.
Il viaggio che da Delhi ci riporta verso casa è lungo come ogni viaggio di ritorno. Le nostre sensazioni su questa avventura sono ancora confuse, ma sentiamo di aver imparato molto. Ci portiamo a casa il ricordo di magnifici colori e della gente soprattutto, dalla quale, più che da tutto il resto, abbiamo avuto la sensazione di essere benvoluti, quasi parte di loro. E questo è stato il miglior dono.
Nel viaggio finale verso la grande città conosciamo ancora un po’ meglio Probeet, il nostro compagno di viaggio. Scopriamo che non è veramente vegetariano, ma lo è diventato da poco perché si trova sotto l’influenza del “presidente delle stelle”, il quale non apprezza che si mangi carne. E’ un altro spaccato di superstizione indiana fatta di persone che si sposano solo con l’autorizzazione del “prete-astrologo” o che si ritrova a diventare vegetariano per ribaltare una situazione di vita sfortunata. Pare che Prabeet, prima di scarrozzarci per l’India, fosse in un periodo di calo lavorativo e che la moglia, preoccupata dalla mancanza di soldi, fosse andata dal santone il quale le ha annunciato che se suo marito voleva trovare lavoro doveva rinunciare alla carne. Così, in seguito a questo sua variazione nello stile di vita, siamo arrivati noi, dono per la sua ripresa economica e conferma, nel quadro generale delle cose, della validità della religione Indù, che Probeet stesso definisce “semplice e che funziona bene!”.
Il viaggio che da Delhi ci riporta verso casa è lungo come ogni viaggio di ritorno. Le nostre sensazioni su questa avventura sono ancora confuse, ma sentiamo di aver imparato molto. Ci portiamo a casa il ricordo di magnifici colori e della gente soprattutto, dalla quale, più che da tutto il resto, abbiamo avuto la sensazione di essere benvoluti, quasi parte di loro. E questo è stato il miglior dono.